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San
Vivaldo:
una "Gerusalemme" sui colli toscani
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Una strada di collina attraverso la Valdelsa, nel cuore turistico
della Toscana, fra Volterra e Montaione, vi porterà dritti
a...Gerusalemme:
Verso la fine del '400, tra i boschi di queste colline, c'era
una vecchia chiesa, eretta in memoria di un monaco eremita di
nome Vivaldo, vissuto circa cent'anni prima all'interno di una
piccola cella (ricavata, si dice, nel tronco di un castagno).
La chiesa versava ormai in uno stato di semi-abbandono, e così
all'inizio del '500 fu deciso di affidarne il restauro e la
custodia alla perizia dei frati Francescani.
I frati però, mobilitando l'entusiasmo della popolazione
locale, non solo restaurarono la piccola chiesa ma la inglobarono
in un progetto molto più ambizioso: trasformare la collina
e il bosco di San Vivaldo in una piccola "Gerusalemme"
per il pellegrinaggio dei fedeli. Ci troviamo, ve lo ricordo,
in Valdelsa, un'area che allora veniva attraversata, ogni anno,
da centinaia di pellegrini alla volta di Roma che da sempre
costituisce una delle principali mete di pellegrinaggio cristiane.
L'altro grande traguardo dei pellegrini cristiani europei era
naturalmente Gerusalemme,
teatro degli eventi legati all'ultima parte della vita di Gesù,
ma in quegli anni i porti del sud d'Italia - da cui ci si imbarcava
per raggiungere la Palestina - erano occupati dall'esercito
dell'impero Turco: procedere a Sud era molto rischioso. Ed era
anche decisamente costoso: solo il viaggio verso la Terrasanta,
costò a un mercante veneziano del tempo l'equivalente
di venti grammi di oro purissimo. A scoraggiare un viaggio così
lungo erano anche le malattie, i briganti, i lupi che non era
raro incontrare lungo i boschi da attraversare prima di giungere
alle città d'imbarco.
Per tutte queste ragioni, Tommaso da Firenze ebbe l'idea di
realizzare una "Gerusalemme in Toscana". Colto frate
francescano, Tommaso aveva già risieduto in Palestina
e dunque conosceva molto bene gli edifici e i luoghi celebri
della Città Santa d'oltremare. Nel giro di pochi anni,
nel bosco di San Vivaldo vennero così costruite più
di trenta cappelle,
riproduzioni fedeli di quei templi cristiani che in Gerusalemme
erano stati costruiti sui celebri luoghi della "Passione"
di Cristo: il Santo Sepolcro, il Monte Calvario, La Casa di
Pilato, il Monte Sion, ecc.
Di quelle cappelle oggi ne rimangono, in tutto il bosco, diciassette:
ognuna di esse contiene un gruppo di grandi statue in terracotta
colorata (in tutto le statue sono 209!) che "mette in scena"
un particolare episodio: dall'Ultima Cena alla Cattura, dalla
Crocifissione alla Resurrezione, e così via. Quelle statue
sono impressionanti per la verosimigilanza delle loro mimiche
e delle loro posture: quasi mai si tratta di quei volti angelici
e sorridenti che avevano abbellito ogni chiesa rinascimentale
di Firenze e della provincia, anzi in quei volti si possono
riconoscere modelli presi direttamente fra la gente dei piccoli
comuni limitrofi: contadini, pastori, massaie, fabbri. Le statue
ci appaiono familiari così come dovevano apparire ai
pellegrini-visitatori del tempo con le quali potevano immedesimarsi.
Gli "abitanti immobili" di San Vivaldo avevano certamente
un forte impatto emotivo sulla popolazione di allora, ignara
di televisioni, riviste, cinema, realtà virtuale...
Ma la suggestione non finisce qui: prima della costruzione delle
cappelle il terreno collinare di San Vivaldo fu pazientemente
modellato in modo che la "Gerusalemme toscana" rispettasse
anche la topografia di quella reale: qualcuno di recente ha
provato a confrontare la pianta di entrambe e si è accorto
che sono effettivamente identiche. In generale, l'effetto scenico
è grandioso: nel silenzio di quel bosco, appena entrati
nelle cappelle avrete l'impressione che quelle statue vi guardino,
vi interroghino, vi rendano partecipi dell'evento che si sta
consumando. Era questo, senza dubbio, anche l'obiettivo di frate
Tommaso, ideatore dell'intero progetto: calare il pellegrino
in una rappresentazione delle sacre scritture quanto mai verosimile
e coinvolgente; creare, insomma, un'opera d'arte "totale".
Damiano Andreini
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